Le tre dimensioni del nostro metodo
Secondo me ed i miei collaboratori, tre sono le principali dimensioni affiorate nella consulenza psicologica e psicoterapica dai tempi di Freud ad oggi:
la dimensione empatica, con la quale il terapista e il counselor hanno saputo abbandonare i piedistalli e gli stereotipi di certi atteggiamenti professionali supponenti e sussiegosi, rigidi e taumaturgici, cercando nel contatto umano col cliente la pre-condizione essenziale d’un rapporto terapeutico efficace;
la dimensione corporea, che ha consentito con l’approccio reichiarno e bioenegetico d’individuare, allentare e sciogliere le tensioni muscolari, viscerali e respiratorie in cui si esprimono, si radicano e si perpetuano tante tensioni psicologiche;
la dimensione esistenziale che, muovendo dalle intuizioni di Otto Rank, ha consentito di scoprire le radici intrapsichiche, appunto esistenziali e psicodinamiche, del malessere psichico umano superando le illusioni ed i facili riduzionismi con cui troppi indirizzi psicologici e psichiatrici hanno preteso d’indicare solo in una società malata, o nella presunta innata distruttività umana, le fonti di tale malessere.
Le prime due dimensioni erano state evidenziate rispettivamente dalle scuole di Carl Rogers e Alexander Lowen, per le quali ho lavorato nei primi vent’anni della mia vita professionale. La terza dimensione è stata inizialmente segnalata da Otto Rank e dalla psicoanalisi esistenziale europea, trovando poi nella mia opera una strutturazione ed articolazione sistematica e coerente.
Purtroppo, però, queste tre dimensioni basilari restavano affrontate separatamente ed embrionalmente dalle scuole esistenti e la sofferenza psichica finiva per essere trattata in modo unilaterale.
L’indirizzo rogersiano, per esempio, propone la dimensione empatica in una cornice teorica e tecnica che ignora il lavoro sul corpo, precludendosi così il rapido accesso alle emozioni profonde consentito da tale lavoro e le potenti sinergie consentite da un’integrazione tra contatto corporeo e contatto empatico.
A sua volta l’approccio psico-corporeo di Reich e Lowen si muove nell’ambito di un “modello medico” che confina spesso l’operatore nel suo ruolo direttivo di “esperto” a tutto danno della sua empatia e spontaneità.
Sia il metodo psico-corporeo che quello rogersiano, inoltre, si rifanno in sostanza allo schema teorico di Rousseau, che vede nelle sofferenze umane solo il prodotto di una società “malata” e “innaturale”, e pretendono di assicurare una vita “felice e vibrante” attraverso un semplicistico ritorno a modalità “naturali” di funzionamento psichico che non sono applicabili all’uomo ed ai suoi tipici conflitti psico-esistenziali.
L’approccio esistenziale, infine, pur intuendo con Rank le radici pre-culturali di tanta parte della sofferenza psichica umana, è rimasto spesso intrappolato, finora, nel linguaggio oscuro di Heidegger e di tanti altri filosofi esistenzialisti, senza riuscire ad a chiarire la psicodinamica dell’angoscia primaria né ad esprimere le componenti affettive, creative e solidaristiche dell’esistenzialismo umanistico.