Un’odissea tragicomica
E la ragione centrale di questa tenace negazione dell’evidenza appare chiarissima, se si tengono presenti le analisi fin qui condotte: sono gli stessi psicologi e psichiatri a difendersi, con le loro estrose interpretazioni di quell’angoscia (come a suo tempo fecero gli stessi “padri fondatori” della professione, dalla propria stessa angoscia di morte.
Così, per esempio, anche dinanzi al terrore di ammalarsi tipico di tante forme d’ipocondria (questa nevrosi che esprime angoscia di morte allo stato puro) l’analista freudiano non si spaventa e sciorina le sue grottesche ma rassicuranti “interpretazioni”, come in questo buffo brano del “Trattato di psicoanalisi” di Otto Fenichel:
“L’ipocondria di un paziente aveva negli strati psichici superiori il significato di castrazione come punizione; in quelli più profondi esprimeva un desiderio di soddisfazione sessuale passiva (gravidanza); a un livello ancor più profondo l’organo malato era equiparato all’oggetto d’amore introiettato. Perciò il naso del paziente (che aveva un ruolo cruciale nelle sue angosce) simboleggiava solo il pene minacciato e le narici simboleggiavano una sorta di organo femminile anale (sic!). Il naso però rappresentava anche (sic!sic!) la madre morta, desiderata incestuosamente e incorporata mediante il sistema respiratorio”.
O ancora, a un essere umano colpito, in seguito alla morte d’una persona amata, da una depressione che rischia di ucciderlo, il bravo analista ortodosso spiegherà (ma solo dopo centinaia o migliaia di sedute profumatamente pagate) che la sua disperazione non è altro che introflessione d’impulsi distruttivi diretti originariamente contro la persona morta oppure espressione della “ferita narcisistica” che quella persona, morendo, ha inflitto al progetto di vita o all’immagine sociale del superstite.
E se un paziente non riesce a dormire da mesi perché teme di morire (anche se non se ne rende conto o non lo dice) nel momento preciso in cui, addormentandosi, perde coscienza, l’imperturbabile analista gli spiegherà (ma sempre dopo anni di sedute) che in realtà quell’angoscia di morte è solo angoscia di castrazione o, magari, angoscia infantile per la separazione dagli escrementi (sic!).
Di solito questa paziente opera di persuasione, dato il peso schiacciante della figura dell’analista e del salasso finanziario di un’analisi pluriennale al ritmo di tre sedute la settimana, viene coronata da “pieno successo” con la capitolazione del paziente dinanzi alle interpretazioni dell’analista e con la ennesima, “trionfale conferma” delle teorie freudiane. Ma se, per ipotesi, quel paziente caparbio rifiutasse di capitolare e si affidasse ad un analista di diversa scuola, le cose non gli andrebbero molto meglio.
Così, dopo altri anni di analisi, un’analista kleiniana arriverebbe anche lei a “smascherare” quella dannata, apparente angoscia di morte come “copertura” della sottostante angoscia reale: un’angoscia della madre strega o del seno cattivo.
E dopo altri anni di analisi, un analista junghiano gli spiegherebbe che non di angoscia di morte si tratta ma solo della paura d’essere sopraffatto da qualche minaccioso archetipo dell’inconscio collettivo.
E se infine il paziente tentasse la sorte con un analista adleriano o reichiano, nuovi, lunghi anni di analisi approderebbero a due nuove “interpretazioni” della sua angoscia di morte tanto inconciliabili nei loro contenuti interpretativi quanto identiche nella loro radicale negazione del contenuto reale di quell’angoscia: l’adleriano potrà spiegargli che la sua angoscia di morte esprime solo un modo per ricattare affettivamente e dominare i familiari o il partner, mentre il reichiano gli svelerà che quell’angoscia apparente di morte è solo un’ingovernabile paura dell’orgasmo, del santo e salvifico orgasmo sessuale.
La nostra storia dell’ipotetico paziente finisce qui solo per i limiti di età (suoi) e i limiti di spazio (nostri), non certo perché altri analisti di altre scuole non sarebbero pronti a lavargli il cervello e a dare altri fantasiosi nomi alla sua angoscia di morte.